domenica 24 maggio 2009

CONTRO LA CRIMINALITÀ DEL POTERE

A diciassette anni dalla strage di Capaci, prendiamo spunto da quel drammatico evento per riflettere su quello che accadde allora e su tutto ciò che sta accadendo oggi in Italia.
Nel 1992 Giovanni Falcone divenne vittima sacrificale dagli apparati dello stato che proprio in quegli anni si preparavano a ridefinire gli assetti di potere sconvolti di lì a poco dal terremoto politico di Tangentopoli e dalla caduta dei maggiori partiti di governo.
Isolato e osteggiato dalle istituzioni che egli stesso rappresentava, così come tutti i funzionari, i magistrati o gli investigatori che negli anni sono stati ammazzati da Cosa Nostra (stessa sorte toccò a Borsellino pochi mesi dopo), Falcone divenne l’“eroe borghese” usato come scudo da tutti quelli per i quali egli rappresentava la “cattiva coscienza”, gli stessi che dopo la sua morte diedero vita al Movimento antimafia nel nome della legalità, della difesa delle istituzioni, dello stato e dell’ordine costituito.Nessuno ha mai posto l’accento su quella che, invece, è una realtà molto semplice: la mafia non è l’“antistato”, né un potere occulto o parallelo.
Al contrario, le mafie sono strutture assolutamente compenetrate e assimilate al sistema di potere dominante. Se non ci fosse lo stato non ci sarebbero neanche le mafie. E a dimostrazione di ciò si potrebbe fare un elenco infinito di politici, burocrati, funzionari che – in Sicilia e non solo – hanno avuto o hanno ancora rapporti organici con Cosa Nostra e le varie mafie. Non è un caso che lo stesso Falcone ebbe a dire, una volta, che i magistrati la mafia li ammazza prima dentro i palazzi del potere e poi fuori.
Negli ultimi anni, la retorica e l’esaltazione dello stato, della legalità e delle forze di polizia come unico e solo antidoto al potere mafioso hanno spianato la strada a una concezione blindata della società in cui non c’è via di scampo: o stai dalla parte dello Stato e delle sue leggi, o sei un criminale. In questo modo, anche il dissenso e l’opposizione sociale sono entrate più facilmente nel mirino della repressione: se la legge dello Stato ha sempre ragione e se tutto ciò che non rientra nella legalità è di per sé criminale, allora non c’è spazio per chi si oppone alle leggi sbagliate e alle tante ingiustizie che affliggono la nostra società.
Il culto acritico della legalità in quanto tale ha dato, negli anni, i suoi frutti avvelenati: i centri di internamento per immigrati “irregolari”, le leggi sulla flessibilità che hanno precarizzato e disintegrato il lavoro, le leggi sulla sicurezza che hanno militarizzato le nostre vite restringendo pesantemente tutti gli spazi di libertà ed espressione.
Fare antimafia non significa appiattirsi sulle leggi o sulle istituzioni.
La lotta alla mafia è, prima di tutto, lotta alle ingiustizie sociali perché la mafia prospera sul bisogno delle persone, è lotta per i diritti e la redistribuzione delle risorse. Lottare contro le mafie significa rifiutare la logica della delega senza cedere ai ricatti dei politici che chiedono i voti in cambio di promesse che non manterranno mai. Le mafie si combattono alzando la testa contro i quotidiani soprusi di tutti quelli che comandano: padroni, mafiosi, politici.
Le mafie si combattono con la solidarietà di classe, con l’azione diretta, con l’internazionalismo delle lotte.
Se non si capisce questo, le cose non cambieranno mai.





Coordinamento Anarchico Palermitano

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